sabato 8 dicembre 2012

IL MIO PARADISO

Dopo più di due mesi eccomi a scrivere nuovamente un post. Ci sono molte differenze contenutistiche con i precedenti e anche come stato d'animo… Sicuramente più digressioni tratte da scritti antichi, ma le trovo estremamente affascinanti. Lascio a voi il giudizio,e spero di scriverne presto degli altri!

La parola paradiso, vocabolo antico, più o meno consumato dalla storia, che nel corso dei secoli ha acquisito mutevoli significati, trova in se stessa, insieme alla parola inferno, la forza di racchiudere il senso della vita di ogni essere umano. Non solo metaforicamente o come prospettiva che conduce alla morte, ma anche quale situazione del presente, quel presente che affrontiamo giorno dopo giorno. Chi non ha mai patito un dolore così intenso o una disperazione tale da pensare che l’esistenza non valesse la pena di essere vissuta? Chi, invece, non ha mai provato una gioia così forte da esclamare di sentirsi al settimo cielo? La vita può essere riassunta, senza però volerla forzare o impoverirla eccessivamente, come una bilancia che costantemente ondeggia tra ciò che desideriamo e ciò che ci viene offerto, tra ciò che fa la nostra felicità e ciò che ci riduce a essere semplici spettatori di avvenimenti, che molte volte avremmo preferito evitare.

Il termine “paradiso” fu usato per la prima volta, secondo alcune testimonianze antiche, dallo storico Senofonte, il quale intendeva riferirsi a un famoso giardino appartenuto all’epoca all’imperatore persiano. Il greco racconta che questo sovrano, trovandosi a regnare su territori aridi e desertici, pensò di abbellire una zona posta su un altopiano, già ricca di vegetazione, per renderla ancora più lussureggiante. Con finalità politiche, voleva dimostrare al proprio popolo come la capacità ordinatrice dell’uomo fosse in grado di dominare sul caos del mondo. Da qui trae origine il potere e la forza di plasmare il proprio destino, ma anche l’etimologia “paràdeisos”, per indicare appunto quello che successivamente sarà denominato come il giardino dell’Eden, il luogo utopico per eccellenza, caratterizzato da una vita semplice e felice sottratta al tempo, alla sofferenza e alla vecchiaia.

La parola paradiso diventa, pertanto, una strada realizzabile: l’aspirazione di ogni individuo a credere di poter trovare una soddisfazione piena. La parola inferno, in questo modo, si contrappone come possibilità offerta all’uomo: aspirare a cambiare ciò che ci circonda e che troviamo sterile e improduttivo oppure accettare di compartecipare a tale situazione. Compartecipare significa, quindi, acconsentire a vivere un’esistenza "dannata". Infatti, a ragione, sarebbe più comodo lasciarsi trasportare dalla corrente. Ma qui interviene quello che secondo me è il più grande dei miracoli, e mi riferisco a quell’energia, a quella forza che ci conduce alla ricerca del bene e della conoscenza, che ci indirizza verso l’altro e ci vieta di chiuderci nell'egoismo. Questo uscire da noi stessi prende il nome di “amore”. Infatti, parafrasando lo svizzero Jung: l’amore va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito. Tocca a noi scegliere da che parte stare!


Essendo affascinato dal pensiero antico, ecco un’altra digressione tratta da Platone. Contemporaneo di Senofonte, il filosofo greco racconta nel Simposio che in un tempo remoto gli uomini erano individui completi, e non avevano bisogno di nulla. Inoltre, non v'era distinzione tra maschi e femmine, ma Zeus, invidioso di tale perfezione, decise di spaccare questi esseri in due. Da allora nacque “il desiderio d’amore gli uni per gli altri, per riformare l’unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo”. In questo modo, ad ogni individuo ne corrisponderebbe un altro che lo completa, e fino a quando le due metà non si ricongiungeranno, saranno destinate a cercarsi  per tutta la vita. Una volta, però, ritrovata l’altra parte, questi individui se ne innamoreranno e non sapranno più viverne senza. Prosegue il filosofo che i due formeranno un’anima sola, un tutto nel quale “il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore”.

In conclusione, paradiso e amore sono strettamente collegati. Come le metà non possono vivere indipendentemente, perché se si ama davvero il paradiso può essere sperimentato già su questa terra. Quando si ama, si soffre, questo è vero, e le maggiori sofferenze provengono proprio dal non essere ricambiati o dal perdere la persona amata. Questa, però, diventa la prova che nell’amore sono contenuti i due opposti: il paradiso e l’inferno. Il racconto di Platone sarà anche un mito, ma l’amore è reale, è tangibile, e l’amore che nutro per la “parte mancante di me” è una ferita sempre aperta in attesa che "l'altra carne viva" possa rimarginarla. Il mio paradiso è colei senza la quale mi manca l’aria, che ha l'energia delle parole con le quali può gettarmi in un enorme e profondissimo abisso, che ha la forza del gesto col quale può innalzarmi oltre le stelle. Il mio paradiso è il sogno scaltro e proibito di cogliere la mela nel giardino dell’Eden per porgertela nuovamente… Il mio paradiso sei solo tu, amore!

lunedì 24 settembre 2012

IL TUO NOME

Questo è il post più difficile che ho scritto fino ad ora e sul finale ne comprenderete il motivo. È l’ultimo di una serie di otto scritti che lascio in custodia in questo blog, spero solo che i prossimi, quando arriveranno, mi ritrovino col sorriso sulle lebbra e non più con gli occhi pieni di lacrime. Faccio presente che quello che segue sono osservazioni personali, estremamente soggettive, ed è per questo che ripeto più volte frasi del tipo “credo che” oppure “almeno così io la penso”.

Dopo sette scritti, ecco che metto mano all’ottavo… Ho pensato di porre qui il punto conclusivo, almeno per il momento. La mia mente inizia a non essere più lucida, è stanca, mentre le mie emozioni cominciano a confondersi tra loro. Credo che la vita ha bisogno di periodi di silenzio, di periodi nei quali prestiamo ascolto alla voce del nostro cuore. Ma non solo, noi esistiamo anche nelle mille voci di parenti e amici che ci incoraggiano e ci sostengono, molte volte contraddicendosi. Dopo la domanda arriva inesorabile una risposta, per questo è indispensabile mettersi in un atteggiamento di apertura, anche nella sofferenza. Ogni chiusura indica una morte della propria interiorità, incapacità di adattarsi alla vita che continua a cambiare sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno.

Inizialmente avevo considerato il numero sette come punto d’arrivo, perché il sette è il numero della creazione, è il numero della perfezione, della virtù, della meditazione, del silenzio, dell’equilibrio, è il numero che segna il passaggio dal noto all’ignoto e rappresenta il completamento di un ciclo. Dio creò l’universo e poi si riposo consegnando all’uomo la sua storia. Siamo noi a costruire il nostro futuro senza, tuttavia, conoscerne la strada. Mi sono reso conto che tutto ciò che il sette rappresenta non mi appartiene per intero, per quello che sono in questo determinato momento storico. Ordine, equilibrio, perfezione sono destinazioni lontane, sono paradisi tropicali dove non posso approdare. Il numero sette, per quanto mi affascini, resta in parte fuori di me.

Credo che aggiungere un “+ 1” non sia un atto di superbia. L’otto mi ispira fiducia perché esprime un desiderio di concretezza. Inoltre, nell’antica mitologia greca era il numero che si rapportava a Zeus, signore del cielo e della pioggia; quel dio che dall’alto del monte Olimpo, le cui cime erano nascoste da spesse nubi, governava il mondo con i fulmini, simbolo della luce della ragione ma anche delle forze più terribili della natura. L’otto è il numero dell’infinito, un infinito che può condurre alla pazzia per chi cerca di comprenderlo, ma che rende saggio l’uomo capace di accettare i limiti e il mistero della vita. Rappresenta anche il momento di raccogliere ciò che abbiamo seminato.

E poi l’otto mi riporta alla mente i primi anni universitari, quando seguivo le lezioni di filosofia morale. Ricordo ancora il racconto di come Nietzsche formulò la dottrina dell’eterno ritorno, quella teoria secondo la quale ogni evento che noi viviamo l’abbiamo vissuto già infinite volte, e lo vivremo infinite volte nel futuro. Di conseguenza, tutto il bene e tutto il male torneranno sempre allo stesso modo. Più o meno questa è la storia che il filosofo racconta in uno dei suoi scritti, “Ecce homo”: si trovava a passeggiare a Sils Maria, in Alta Engadina, un giorno dell’agosto del 1881. Mentre costeggiava il lago di Silvaplana a “6000 piedi al di là dell’uomo e del tempo”, circondato da folti boschi, fu folgorato dall’immagine straordinaria della natura, di quel bacino circolare, e lo colse quel pensiero “abissale” che “eternamente ruota la ruota dell’essere”.


L’otto rappresenta, così, l’indeterminatezza e la fragilità dell’esistenza umana, quel principio secondo cui non tutte le volte che crediamo di fare il bene stiamo realmente facendo il bene, e non tutte le volte in cui crediamo di fare il male stiamo facendo il male. Non potremo mai essere giudici di questo mondo né tantomeno giudici di noi stessi. L’otto simboleggia anche il tempo che scorre inesorabile nella clessidra, nell’attesa del momento in cui la sabbia finirà. Una mano esterna, allora, la girerà per rimetterla in movimento. Tutti noi abbiamo bisogno di una mano che ci aiuti, che ci permetta di ritornare a vivere. Il silenzio è proprio il periodo in cui la sabbia si è bloccata nella parte inferiore. Che brutta sensazione sarebbe restare posati sul fondo per sempre.

Il tempo che ricomincia a scorrere è sempre il nostro tempo. La sabbia è sempre la nostra sabbia. Possiamo illuderci che qualcosa sia cambiato, ma la realtà delle cose resta la stessa. Cosa fare allora? Probabilmente, almeno così io la penso, utilizzare quel periodo di silenzio ad un unico scopo: guardarsi indietro per scoprire quanto bene c’è stato fino a quel punto. Perdonarsi e accettarsi per quelli che si è, perdonare coloro che ci hanno fatto del male. Riformulare, di conseguenza, le proprie aspirazioni, perché se siamo giunti in un questo luogo morto della nostra esistenza ci sarà stato un motivo. Non bisogna basarsi, però, solo sui propri istinti ma anche su quanto di buono è presente in noi. Perché la realtà è azione, l’azione è vita e la vita ci permette di costruire la nostra felicità o almeno cioè che ci potrebbe avvicinare ad essa.

L’amore, in tutte le sue forme, sarà l’unico metro di giudizio della mia vita perché è ciò che mi ha donato felicità. L’amore è un otto perché comprende due cerchi che si uniscono in un punto e restano eternamente legati, come la frase di Beethoven ripresa in quel film che tanto ti piaceva: “Eternamente tuo, eternamente mia, eternamente nostri”. Questo è l’amore per me, fatto di alti e bassi, di addii e ritorni, di passione e gioia, di rabbia e serenità, di dolore e felicità. L’amore è ritornare, senza essersi mai realmente allontanati. L’amore è preservare, anche nella tempesta più tremenda, la fiamma di un’esile candela, perché possa tornare a divampare col sereno.

Bisogna, però, avere il coraggio di amare veramente, perché per essere amore deve avere la capacità di rendere libero l’altro, nella sua totalità. A volte nella vita si perde, questo lo so, è un rischio che si deve correre. Ed è per questo che decisi di lasciarti andare via quella sera di settembre, sotto il tuo portone, mentre tu parlavi e mi si spezza il cuore. Resto seduto qui ancora un po’, in riva alla scogliera, e guardo la tempesta abbattersi sul mare, sperando che presto la bonaccia arriverà e che saremo ancora lì. Perché se è amore non si è mai interrotto. Perché se è amore non potrai permettere a qualcuno di distruggere quello che abbiamo costruito insieme. Perché l’essenza del mio amore, come dicevo prima, porta il tuo nome: libertà.

domenica 23 settembre 2012

PERDERSI

Il mio settimo post è più introspettivo dei precedenti. Spero che non vi annoi per questo.

Avrò avuto circa sette o otto anni, lo ricordo ancora come se fosse stato ieri. Passeggiavo mano nella mano con mia madre, accanto a lei c’era mio padre. Era un sabato pomeriggio di novembre, forse degli inizi di dicembre. C’era molta gente per strada. Fu un attimo, lasciai la presa di mia madre per avvicinarmi a una vetrina illuminata. Vi erano abiti da uomo esposti: un maglione richiamò la mia attenzione, aveva impresso sopra una figura che adesso purtroppo non riesco a ricordare. Fu un attimo, mi votai e tra la folla non riconobbi più le sagome dei miei genitori. Un sobbalzo trasalì dallo stomaco e un tremore si impossessò di me. Mi giravo e rigiravo, mi sentivo abbagliato, caddi nel panico perché non sapevo come tornare a casa. D’improvviso, però, riconobbi la voce di mia madre che mi chiamava: “Fai presto che dobbiamo andare”. Si erano fermati due negozi più avanti e avevano continuato a controllarmi con lo sguardo.

Da quel giorno è rimasta in me questa paura di trovarmi impreparato nei confronti delle situazione che si sarebbero presentate nel corso della vita. Inizialmente erano piccoli fatti, a casa, con gli amici. I bambini quando giocano sono soliti costruire mondi immaginari, fantastici; io ogni volta che provavo a inventare una storia, questa doveva aveva un doppio finale, una conclusione d’emergenza. Oppure quando vedevo un film creavo trame parallele, possibili vie di fuga per il protagonista. Crescendo la fantasia ha lasciato il posto alla realtà, e controllare questa realtà è diventato una sorta di gioco, o meglio quello che avevo imparato dal gioco adesso lo adattavo alla realtà. Doveva essere tutto in ordine, perfetto, come dicevo io.

Lungo gli anni questa mania del controllo è diventata un’ossessione. Ogni situazione doveva avere un apposito piano “b”, un piano alternativo. Pensavo e ripensavo nel tentativo di comprendere più velocemente le meccaniche della vita, per essere un passo avanti agli altri, per non essere colto alla sprovvista. Diventare sveglio e intelligente erano le mie priorità. Comprendere i massimi sistemi del mondo un mio dovere. Mi sentivo preparato e sapevo che non avrei mai fallito: la mia filosofia si stava affinando sempre più.


Chiaramente ho applicato questa specie di tattica anche all’amore. Il problema non era l’autenticità dei miei sentimento, che sono sempre stati reali, ma la probabile evoluzione della vita di coppia. Avere tutto sotto controllo era diventato un obbligo perché per amore tutto doveva essere “ancora più perfetto”. Organizzavo ogni circostanza nei minimi particolari, la mia amata si doveva sentire speciale perché io mi volevo sentire speciale. Non mi accontentavo e perfino un viaggio era studiato con minuzia. Ad esempio, per arrivare dall’aeroporto all’hotel calcolavo almeno due modi possibili. Controllavo il peso e la grandezza delle valigie per avere un margine in caso di necessità. Imparavo a memoria il tragitto e i monumenti da visitare, mi annotavo bar, ristoranti e locali. In questo modo costruivo una storia d’amore che non poteva fallire, ma nel frattempo imprigionavo l’altra parte nelle mie ossessioni.

Ed eccomi qua. Nel tentativo di controllare la mia vita ho imparato che la vita fa sempre a modo suo. Quando sa di essere ingannata risponde con mosse altrettanto imprevedibili che ti stendono lasciandoti al tappeto. Ma la cosa peggiore è che per controllare la mia vita mi sono dimenticato di viverla. Per paura di soffrire sono diventato causa di sofferenza. Molto probabilmente l’ossessione di dominare ogni istante era già insita in me, forse alcuni avvenimenti ne hanno solo accelerato il corso, ma più probabilmente è stato uno scudo per difendermi dalla sofferenza. E la peggiore sofferenza è il distacco.

Da oggi ho deciso di vivere ogni attimo nel profondo. Non guardare più alla forma ma sentirmi libero di essere. Vivere significa anche questo: accettare la sofferenza e il dolore, come la gioia e la felicità, perché sono i due lati della stessa moneta. Da oggi voglio perdermi in ogni attimo, nel bene e nel male, per stringerlo a me e mantenerlo il più possibile. "Tutti commettiamo errori, nessuno è perfetto" mi ripetevano quand’ero piccolo. Spero solo che non sia troppo tardi, che la vita mi conceda una seconda occasione, che gli errori commessi per paura o per amore siano ferite rimarginabili, anche se hanno lasciato profonde cicatrici. Forse è solo una vana speranza. Adesso ho soltanto voglia  di perdermi, ma ne sarò ancora capace? Perché già mi sono perso in passato, quando credevo che tutto era perfettamente sotto controllo.

FOGLIE D'AUTUNNO

Per il mio sesto post ho pensato di caricare, invece di un'immagine, il video della canzone che ascoltavo mentre scrivevo. Vi consiglio di proseguire nella lettera solo dopo aver fatto partire la musica. 

C’è una bellissima canzone che ascolto spesso nella versione data da Eric Clapton qualche anno fa. La voce viaggia leggera sull’armonia e il timbro della chitarra, quelle note sparse, accrescono l’atmosfera malinconica del brano. Qualche volta mi cimento anch’io, imbraccio la mia chitarra e mi lascio trasportare da quei segni neri che si susseguono sul pentagramma. Mi piace ascoltarla nel suo lento e nostalgico fluire mentre prendono forma nella mia mente immagini vaghe e indefinite. La canzone si intitola “Autumn leaves”, foglie d’autunno, ed è uno degli standard jazz oggi più famosi e suonati al mondo. Fu composta nel 1945 da Joseph Kosma, a cui successivamente fu adattato un testo inglese, quello che tutti oggi conosciamo, scritto da Johnny Mercer. Le parole originali erano del francese Jacques Prevert e prevedevano lunghe sezioni di recitativo in un tono triste e dimesso. Il ricordo d’amore è preponderante in tutto il brano mentre il tempo scorre inesorabile. 

La canzone descrive uno dei primi giorni d’autunno quando le foglie si staccano dai rami e cadono lente davanti la finestra. Le foglie d’autunno, trasportate dal vento, perdono il loro colorito originario per assumere tonalità che variano dal rosso all’ocra. Si poggiano svogliate sul terreno. Ecco, allora, nascere il ricordo dell'estate appena conclusa. Quell’estate che abbiamo trascorso insieme. Ecco, allora, le tue labbra, il sapore dei tuoi baci, l’odore della salsedine, la sensazione della pelle bruciata dal sole e le mie mani che ti stringevano forte. Da quando sei andata via le mie giornate sono sempre più lunghe. Ben presto la vecchia melodia dell’autunno lascerà spazio al silenzioso canto dell'inverno. Mi manchi più di ogni altra cosa al mondo, amore mio, piango mentre le foglie d'autunno si staccano dai rami e cadono lente.


Tutti i colori d’autunno sono presenti nella mia anima! Ma la tristezza e la malinconia hanno preso il sopravvento. La mia vita ha le stesse sfumature dell’autunno, in questo momento. Penso a te che se lontana. Ripercorro ogni ricordo con accuratezza, rivivo ogni istante trascorso insieme, guardo vecchie foto mentre le lacrime inondano il mio viso. Chissà se un giorno tornerai da me? Fa che non sia tardi, fa che non sia inverno nel mio cuore, altrimenti ho paura di perdermi per sempre. Ti amo ancora, tanto, tantissimo, e ogni giorno trascorso insieme è stato il più bel regalo ricevuto da Dio. Piango mentre le foglie d'autunno si staccano dai rami e cadono lente; i miei singhiozzi vengono coperti da una leggera melodia che canta: “But I miss you most of all, my darling, when autumn leaves start to fall” (ma mi manchi soprattutto, tesoro mio, quando le foglie d'autunno iniziano a cadere).

sabato 22 settembre 2012

I NOSTRI DÈMONI

Il post di questa notte è sicuramente particolare perché ha molto del personale, non nel senso di una scrittura intima ma di un'idea che può risultare tanto astratta e inusitata se non viene letta nella misura in cui ogni figurazione simbolica assume un suo coerente significato. Ammetto anche di aver avuto qualche difficoltà nel rendere l'argomentazione quanto più comprensibile possibile. Spero vi piaccia.

Ognuno di noi ha un dèmone dentro di sé, così affermavano gli antichi filosofi. Socrate lo considerava una sorta di voce guida che, fin dall’infanzia, aveva il compito di persuaderci a non commettere determinate azioni; per Platone, invece, era una forza demoniaca (nel senso di una “presenza divina”, da cui trae origine il termine) che consentiva all’uomo di elevarsi verso il mondo sovrasensibile. Parecchi pensatori si sono espressi nel corso dei secoli finché con l’avvento del cristianesimo la parola ha subito una lenta trasformazione. Il “demònio”, l’angelo decaduto, si è connotato di un senso negativo, dispregiativo, venendo a sussistere come il principale nemico di Dio.

Fuori dal concetto teologico, come potrebbero deviarci le descrizioni letterarie dell’immaginario dantesco, credo che in ognuno di noi alberga questa sorta di presenza. Sono i dèmoni delle nostre angosce, delle nostre paure, delle nostre fobie, dei nostri incubi, delle nostre apatie, delle nostre prepotenze, così come li ha ritratti Francisco Goya nelle sue “figure nere”. Sono i volti che si deformano attraverso un malessere interiore, che lacerano la nostra personalità, ci divorano dall’interno, come quelli raffigurati da Francis Bacon negli anni successivi la Seconda Guerra Mondiale.

Purtroppo il singolare non basta e neanche una buona manciata di chicchi di grano racchiusi in una mano a conteggiare tali dèmoni… Possono assumere vari nomi, possono nascondersi per anni, possono anche non venire mai a galla, ma sono sempre lì a spingerci in direzioni che nemmeno avremmo immaginato. Ci parlano con una voce sottile attraverso le nostre coscienze, ci disorientano, ci distolgono dalla vita reale. Sono forze oscure, primordiali, forze contro le quali non si può combattere ad armi pari. Aprono strappi enormi nel nostro animo. Cercare di contrastarli richiede un coraggio e un’energia che non sempre si possiede, soprattutto nei momenti di stanchezza e di abbattimento.


Ognuno prima o poi deve affrontare i propri lati oscuri, le passioni più cupe, i desideri più inconfessati, o anche semplici ansie, angosce e tristezze che rendono smunta la nostra esistenza. A volte questi dèmoni si camuffano e assumono sembianze dolci, altre volte ci affascinano e ci tentano su strade dorate. Perché ognuno porta dentro, sin da piccolo, due facce, tra quello che è giusto e quello che vorrebbe fosse giusto, tra quello a cui aspira e quello che realmente può ottenere, tra quello che sogna quando smette di guardare in faccia la realtà. I dèmoni sono presenti nelle nostre coscienze e parlano confondendosi con la voce del nostro cuore, con quanto abbiamo di più puro e onesto. Si muovono come fantasmi tra stanze buie e ricompaiono all’improvviso, a volte dopo un lungo sonno.

Anch’io ho dovuto fare i conti con i miei dèmoni, e ancora oggi conduco una battaglia senza tregua. Questa guerra è segnata da sconfitte come da vittorie. Sono radicati in noi, nella nostra carne, nelle nostre ossa tanto da rendere a volte impossibile estirparli. Qualcuno li chiama col nome di peccato, ma è evidentemente riduttivo. Solo di notte, quando resto solo, e ripenso alla mia giornata, a quanto di buono c’è stato, alle persone che valgono più della mia stessa vita, mi accorgo della loro falsità. Ripenso allo sguardo limpido della mia donna, alla tenera carezza di una madre, alla voce confortante di una sorella o di un fratello, al consiglio dato da un amico, al sorriso di un bimbo, di un nipote, a quanti non distolgono i loro occhi dai miei nell’indifferenza e nella noncuranza.

La forza di combattere mi viene, però, da un istinto primordiale, da un’energia che Dio ci ha concesso e che non dobbiamo mai far spegnere. Il più aberrante dei miei pensieri è considerare un futuro nel quale sia schiavo di me stesso, delle mie passioni e per questo sia privo della capacità di amare! Privo di una libertà che nasce dal profondo di ogni anima. La mia forza porta il nome dell’amore verso di me e verso chi abita nel mio cuore. Non posso immaginare una notte scura senza stelle, una galassia che per quanto lontana non abbia un suo Sole. E così, ogni volta che sconfiggo un dèmone mi riapproprio di una parte di me, costruisco un giardino nuovo nella mia vita. I dèmoni sono tanti, troppi, non finiranno mai di perseguitarmi, questo lo so, ma alla fine mi domando: che senso ha lasciarci stregare da loro se questo significa corrodere la propria anima e, forse, perdersi per sempre? Forse siamo ancora umani? Troppo umani?

venerdì 21 settembre 2012

MI PIACE QUANDO MI GUARDI

Per il mio quarto post non aggiungo alcuna premessa, lascio a voi il giudizio perché quando si parla d'amore non sempre le parole sono sufficienti...

Mi piace quando mi guardi a prima mattina, appena sveglia, che scosti il cuscino e ti volti verso di me. La tua pelle è candida, la tua bocca è calda e i tuoi occhi, illuminati dal chiarore dei primi raggi di sole, sembrano brillare nella penombra. Fuori è mattino. Gli alberi bisbigliano, mossi da una leggera brezza. C’è il mondo che ci aspetta mentre all’interno della stanza il tempo sembra essersi fermato nel dormiveglia di due corpi vicini. È già tardi, bisogna alzarsi.

Mi piace quando, in vestaglia, scendi e insieme prepariamo la colazione. L’aroma del caffè dalla cucina si diffonde per la casa, il latte è sul fuoco. Quegli sguardi sfuggenti fino a quando non siamo seduti vicini. Le prime parole dolci lasciano spazio a discorsi più ampi; una battuta improvvisa, però, ci mette d'allegria e di buonumore. È bello incominciare la giornata con te al mio fianco ed essere il primo a guardarti negli occhi e a baciarti.

Mi piace quando mi guardi mentre ti vesti, quando ti accorgi che io, di nascosto, ti sto fissando. Espressioni maliziose si leggono sul tuo volto; ti compiaci dei miei silenziosi apprezzamenti, anche se non ti reputi altrettanto bella. Per questo ti scosti e ti allontani facendo finta di niente. È un rincorrersi di attenzione sottintese, di sguardi celati. Cerco di afferrare i tuoi pensieri ma qualcosa mi sfugge, mentre ti agiti smaniosa tra abiti, scarpe, trucco, orecchini, collane e accessori vari.

Mi piace quando mi guardi sulla porta di casa, prima di separarci. Il tuo viso cambia, sembra malinconico e non so perché. Se è per la voglia di restare ancora un attimo insieme o per la paura di sentirti sola e trascurata durante la giornata. Ma non credo sia così… perché poco dopo iniziamo a messaggiarci. Saperti lontana mi fa immaginare il tuo mondo, cosa fai, con chi sei. Ti penso tra le tante persone che ti circondano, mi ricordo di com’eri vestita: le tue espressioni, i tuoi gesti, se sei allegra o infastidita, i problemi da risolvere e quella tua risata improvvisa, che mette tutti di buonumore.


Il tuo sguardo è il mio filtro sul mondo. Attraverso di te le mie giornate prendono forma. Non te l’ho mai detto ma è così: se ho una difficoltà penso a te, a cosa faresti nel mio caso; se rido ti immagino contraccambiare col tuo bellissimo sorriso; se sono triste, bramo l’attimo in cui potrò riabbracciarti per perdermi nella più tenera delle strette. Per questo il tuo sguardo resta sempre dentro di me. Per questo il mio mondo ti appartiene, o mi illudo che sia così, così come mi permetti, giorno dopo giorno, di entrare nel tuo.

Desiderare di essere nel tuo mondo, credo che questa sia l’essenza del mio amore. Un mondo fatto non solo di sentimenti e di passioni, di preoccupazioni e di angosce, di emozioni e di spensieratezze, ma anche di piccoli gesti involontari, di carezze mancate ma avvertite, di intese profonde. Riuscire quasi a leggere i pensieri dell’altra persona, tanto si è intimi, da entrarci in sintonia profonda; è patire insieme, è gioire insieme, per ogni battaglia persa, per ogni successo ottenuto. Sono affascinato e attratto dal tuo mondo e non vorrei mai più uscirne.

La sera, quando ci rivediamo, desidero camminare con te mano nella mano. Perdermi nei nostri passi, nella tua voce. Vederti catturata dalle vetrine. Aspettare mentre ultimi un acquisto, dopo aver atteso un mio giudizio sul capo che hai scelto. Osservo il tuo sguardo analizzare la mia espressione per capire se ti reputo bella, come se fosse il nuovo abito a farti bella. Riprendere, poi, a camminare finché non incontriamo qualche amico. Mi piace osservarti di nascosto, quando parli, e seguire il tuo corpo che si relaziona col mondo, i tuoi gesti impercettibili che solo io conosco, che mi fanno comprendere quello che pensi ancor prima di averlo detto.

Mi piace quando mi guardi a cena, perché è il luogo giusto per parlare della nostra giornata; per raccontarti di me facendoti partecipe delle mie mille avventure, come un principe che attraversa mille peripezie per tornare al castello. Ascoltare, poi, dalle tue labbra ciò che hai voglia di dirmi. Mi piace quando litighiamo, alziamo la voce perché non condividiamo qualcosa della nostra giornata o di quello che ci aspetta il dì seguente. Mi piace anche quando non mi guardi, quando metti il broncio oppure mentre stiamo vicini a vedere un film. Mi piace fare pace con te, coccolarti e osservare la tua espressione cambiare. Mi piace soprattutto quando andiamo a letto, dopo esserci spogliati di noi stessi, nel silenzio della notte, perché soltanto allora posso ascoltare i tuoi respiri e farli miei… sapere che sei lì, al mio fianco, solo mia finché non sorge il sole.

Adesso che sei lontana, quando cammino per strada, mi appare il tuo viso, tra la folla, su ogni donna che incontro, ma non è lo stesso... È un grande vuoto dentro. Le giornate trascorrono lente e quando sopraggiunge la notte sogno, ancora, i tuoi occhi: di quanto mi piaceva quando mi guardavi.

giovedì 20 settembre 2012

ATTESA

Il mio terzo blog ha un carattere più "filosofeggiante", se mi permettete l'espressione. E' una riflessione sul tema presente appunto nel titolo. Buona lettura!

Attesa non è essere immobili. Attesa non è sedersi ad aspettare. Attesa non è sempre sinonimo di ansia. A volte ci capita di pensare che attendere qualcuno o qualcosa è come vivere un tempo-non-tempo. È esistere quasi al contrario, in una dimensione non nostra. Attesa è perdita di tempo… Almeno così potrebbe sembrare. Attendere, invece, è un dono che abbiamo ricevuto perché ci permette di sentirci vivi, di provare forti emozioni. Si può imparare tantissimo se si riuscisse ad ascoltare le attese, nel bene e nel male. Bisogna stare attenti, però, a dividerle tra quelle costruttive e le altre. Alcune ci conduco al bene, al bello, ai nostri desideri reali, come un fiore che, dopo aver patito il gelo, germoglia nei colori della primavera e infine sboccia in estate. Altre, invece, conduco al male, al brutto, ci corrodono l'anima verso l’autunno della vecchiaia e poi l’inverno della morte. L’attesa di un amico che aspetta una nostra chiamata o l’attesa in una corsia d’ospedale. L’attesa del postino che suona sempre due volte o l’attesa dei nonni verso un nipote, cresciuto, che non li cerca più.

Attesa è un solco nel tempo che scorre veloce, come un quadro di Fontana. Attesa è un mistero da svelare, è un libro di avventure, è un romanzo di Salgari. Attesa sono le mani della tua donna che cercano il tuo corpo, nelle sere più buie, per il più tenero degli abbracci. Attesa sono le lancette dell’orologio che rallentano, quasi a fermarsi, quando si fermano i nostri affanni e sopraggiunge la notte. Attesa è una brezza leggera, che increspa le onde del mare e le infrange a riva mentre il pescatore, all’alba, ripone le reti. Attesa e lo scorrere dei fiumi o la campanella a scuola che tarda a suonare. Attesa è la partita di pallone all’oratorio, alla quale i ragazzi corrono dopo il catechismo. Attesa è una bibita che si riscalda mentre guardiamo un film al cinema o l’acqua che bolle sul fuoco. Attesa è l’autobus che non passa oppure il ragazzo sotto il balcone della fidanzata. Attesa è un viaggio che conduce lontano, mentre le ruote corrono veloci sull'asfalto. L’attesa è un frutto acerbo colto sempre in ritardo.

Quante volte avrò ripetuto la parola “attesa” finora? Tante sicuramente. Non basterebbero le dita delle mani di due persone. Eppure l’attesa è una parola leggera, che scivola sulla lingua privandoci del gusto di comprenderla fino in fondo. È difficile da afferrare perché è un concetto astratto, se non lo riportiamo ad una realtà concreta. Soprattutto perché l’attesa è un'idea che si è evoluta in età moderna. È conoscenza di quello che potrà essere il futuro. Ma è anche coscienza di non poter tornare indietro. Del tempo che scorre e che produce in noi un’alternanza di emozioni e sensazione, di passioni che ci innalzano al cielo o ci legano alla terra, come macigni posti sul nostro capo. Attesa sono le tante ferite sul cuore che aspettano di essere risanate, se mai potranno essere risanate. Attesa e lo sguardo del bambino che corre in braccio alla madre come un notturno di Chopin che si perde nell’aria.


Nella mia vita ogni giorno si è trasformato in attesa. Attesa di cosa? Attesa che prenda la giusta direzione, la strada delle mie aspirazioni, delle mie ambizioni, e perché no delle mie voglie e dei miei bisogni. Attendere è dura, oggi come oggi,  perché guardarsi intorno è scoprire che le attese non sempre vengono ripagate. Cosa fare allora? Auspicare un’altra attesa mentre la vecchia si consuma? O tradire la nuova ostinandoci a camminare sempre nelle stesse scarpe, perché più camminiamo e più ci avviciniamo alla mèta? A ognuno la sua scelta, non c’è risposta, c’è solo lo stupore di una vita immersa nel mistero. Un altro elemento, però, va preso in considerazione: la cattiveria dell’uomo contro il suo simile, fatta di tanti piccoli egoisti che non ci permettono di sciogliere molte nostre attese, di recidere il nastro con decisione.

Attendendo ho imparato ad amare, a soffrire e a gioire. Ho imparato la rabbia e l’ostinazione, la voglia di tentare, di essere generoso e coraggioso; ho imparato la rassegnazione e la tristezza, la malinconia e l’inquietudine. Ma l’attesa non mi ha portato mai a essere felice, a essere me stesso per quello che sento di essere. Nell’uomo c’è un’aspirazione a voler desiderare sempre altro, senza mai riuscire a mettere un punto conclusivo, senza mai riuscire ad afferrare la realtà per intera. La felicità è il sorriso della propria donna, lo sguardo innamorato del padre verso i propri figli, il conseguimento di un traguardo che d’improvviso scivola via, senza darci l’opportunità di goderne appieno. Ogni attesa pretende una propria risoluzione per lasciare spazio a una nuova attesa. Sono convinto che la vita è fatta di una successione di attese, e quando si smette di attendere si smette di vivere, si inizia pian piano a morire. Ma la risoluzione di un’attesa, come ho detto in precedenza, è un dono perché per brevi istanti ci libera dall’ansia di vivere. Un esempio: la lettura di questo brano in se stessa è un attesa, finché non giungerete al termine, non metterete il punto conclusivo insieme a me. Solo allora sarete capaci di sciogliere la vostra attesa per scoprire la piccola emozione che vi è rimasta dentro e che spero vi accompagni ancora per qualche attimo.

mercoledì 19 settembre 2012

UNA LACRIMA

Ecco il mio secondo blog a distanza di pochi giorni. Forse l'argomento risulterà banale, però, come nel precedente, cerco di non tradire i miei stati d'animo. E' triste, lo so, come una fredda giornata di dicembre, ma la vita è fatta così, di gioie e dolori...

Dicono che una lacrima è soltanto una secrezione acquosa emessa dal nostro occhio quando quest’ultimo si trova in uno stato di stress. Dicono che serve a pulire la cornea, a lubrificarla, a nutrirla e a difenderla dagli agenti esterni. Dicono che una lacrima è un atto naturale, un atto involontario. Ma questo è solo ciò che la scienza medica crede. C’era un tempo in cui le lacrime erano considerate sacre, quanto di più vero c’era in un essere umano. Si racconta che Achille, alla notizia della morte di Patroclo, urlando di disperazione, pianse sulla riva del mare. Si tramanda che Afrodite, la dea dell’amore, ferita da Diomede per errore a una gamba, córresse dal padre piangendo a dirotto. Si riporta, ancora, che gli antichi atleti e i loro re, accorsi per le Olimpiadi, piangessero mostrando il loro animo più nobile. Eroi, dei, re e atleti non si vergognavano di piangere in presenza di altri.

Anche per gli antichi romani era così. Una leggenda dell'epoca narra la storia di una giovane donna, Quinzia: innamorata del poeta Catullo, a sua volta invaghito follemente di Lesbia, fu abbandonata sulle rive del lago di Garda, quando l’antico cantore partì per Roma. Non sempre la lontananza segna effettivamente una distanza. Lo spazio è come una lente di ingrandimento ed il tempo è come un metro di misura per l’amante; più le sensazioni e le emozioni sono state forti e più i sentimenti e le passioni si intensificano. Per questo il ricordo dell’amore lontano si impresse a fuoco nel cuore di Quinzia, tanto da farla tornare spesso sulle rive del lago, dove scrutava l’acqua alla ricercava dell’ombra riflessa dell’amato, in modo dar non sentirsi più sola. Un giorno giunse la voce tremenda della morte del poeta. La giovane corse allora disperata, ancora una volta, sulla riva del lago e pianse tutte le sue lacrime. Cadendo in acqua, goccia dopo goccia, queste formarono un bellissimo mosaico che riproduceva le fattezze del poeta. Non riuscendo più a sopportare il dolore, la donna morì. Si riferisce ancora che per secoli si è tramandata l'usanza tra i giovani innamorati di prendere il largo con una barca, nelle notti di luna piena, alla ricerca di quell’antico mosaico posato sul fondale.


Una lacrima non è solamente un liquido acquoso, ma è anche il contenitore di una storia, di un’esperienza vissuta. Una lacrima, una volta staccatasi dall’occhio, vive di vita propria, almeno nel tragitto che dalla guancia la conduce alla morte. Hanno un'esistenza breve, di qualche secondo a volte, se la mano non le cancella prima dal viso. Sono stelle cadenti, fasci di luce tanto intensa quanto effimera, galassie remote. Una lacrima parla, però, a chi è capace di ascoltarla: gli parla d’amore perduto, di tristezza sofferta, di speranza infranta, oppure gli parla di attimi di felicità impressi per sempre nell’anima. È il canale privilegiato dei sogni. È il canale troppe volte inascoltato delle nostre emozioni. Una lacrime è metafora di noi e ci rappresenta per quello che siamo in quell’attimo in cui piangiamo.

Nella mia adolescenza mi è stato insegnato a non piangere, a essere forte perché una lacrima è segno di fragilità, è un messaggio di inadeguatezza. Una giovane donna, invece, poco tempo fa mi ha fatto una domanda, col suo viso candido, con lo sguardo profondo di chi ama oltre l’apparenza, con le sue labbra rosa e carnose: “Tu non piangi mai?”. Come una freccia affilata, ha trafitto la mia anima. Perché non piango mai? È calato il silenzio nei miei pensieri. Non mi ero mai posto questa domanda. La risposta è arrivata alcune settimane dopo, di sera, mentre tornavo a casa. Mi sono reso conto di non essere in grado di piangere di felicità, almeno esteriormente. Ho compreso, invece, cosa significa piangere per amore: si piange per paura di perdere l’altra persona e quindi parte della propria anima, perché è così che accade quando l’amata si allontana, forse momentaneamente, forse per sempre, e abbandona la strada che stavate percorrendo insieme. Quella mano nella mano che lascia la presa. Quello sguardo di adorazione, trasformatosi in un’espressione tesa, si volta altrove. Ti ritrovi perso, senza più una mèta. Perché nel profondo di ogni uomo o donna c’è un inestinguibile bisogno d’amore; perché solo nel donarci all’altro, nell’amare, realizziamo noi stessi in quanto esseri affettivi. È brutto trovarsi soli! A volte credo che Dio abbia creato il mondo nel bisogno di non sentirsi più solo. Spero che, così come ho imparato a piangere di tristezza per un amore che si è allontanato, un giorno imparerò a piangere di felicità per un amore che è tornato.

domenica 16 settembre 2012

IN PUNTA DI PIEDI

Ecco il mio primo post! E' uno scritto che è nato così, di getto, su una riflessione che porto dentro da qualche giorno. Lo pubblico perché rappresenta parte del mio stato emotivo e, come una pagina iniziale di un diario, lo conservo geloso in questo spazio. Spero vi piaccia!

Il fatto è che noi nasciamo alla rovescia… Inizia tutto là, il giorno del parto nel quale nostra madre ci mette al mondo. Veniamo fuori dal ventre ma non in punta di piedi, pronti a muoverci con le gambe per terra e la schiena ritta… Siamo curiosi, vogliamo uscire dapprima con la testa, per vedere cosa ci aspetta! Come Eva che, esortata dal serpente, coglie il frutto dall’albero, così noi non sappiamo resistere alle tentazioni e apriamo immediatamente gli occhi guardando una stanza che nemmeno riusciamo a mettere a fuoco. C’è ansia di vivere, c’è fretta di venire alla luce. Non siamo in grado di goderci il giorno “1”, dopo che per nove mesi siamo stati comodamente cullati nel grembo materno. E così incomincia la nostra avventura, privati del cordone ombelicale e traumatizzati dal contatto col mondo.

Cresciuti, ma ancora bambini, siamo attratti da ciò che provoca stupore in noi, meraviglia e stimola la nostra immaginazione. Forgiamo il nostro carattere al contatto col mondo e il mondo che ci circonda a nostra immagine. Vediamo solo quello che vogliamo vedere, sentiamo solo quello che ci va di sentire, e proviamo avversione verso chi ci impedisce di vivere secondo le nostre fantasie. Cresciamo ancora con la fretta di diventare adulti, cresciamo senza comprendere che la verità di ogni attimo sta nel modo in cui si vive ogni istante. Andiamo a scuola, facciamo amicizia e, senza neanche accorgercene, il nostro spazio vitale si dilata. Il contatto col mondo si inasprisce, ci sfugge, ci lega a sé. Diventiamo incapaci di comprendere l’esistenza perché la nostra forza, la nostra immaginazione pian piano lasciano spazio alle nostre emozioni. Continuiamo a sentirci alla rovescia, come quando siamo nati, e allora ci ribelliamo.

Ecco, però, che una ragazza ci sorride, ci guarda negli occhi, negli stessi occhi della nostra infanzia. Per la prima volta vediamo in profondità, oltre l’apparenza. Scopriamo la bellezza di uno sguardo, di un sorriso, di una carezza, di un abbraccio. Il mondo, che da tanto tempo ci sembrava estraneo, adesso si trasforma in un paradiso terrestre. Ci sentiamo leggeri e sembra che tutto si possa realizzare… Il mondo è nostro e lei è la nostra felicità! Ma come esiste il paradiso, così esiste l’inferno. Senza l’inferno non ci sarebbe un metro di giudizio. Ci ritroviamo spinti e gettati in mezzo alle fiamme, disperati, senza più l’amore… Cadiamo senza che nessuno ci abbia insegnato a rialzarci, mentre il tempo accelera e l’essere si perde. Passano secondi, minuti, ore, giorni, mesi, anni e stiamo lì, immobili. Ancora la stessa sensazione, ci sentiamo a testa in giù e tutto appare sottosopra. La vita ci sta sempre più stretta.


Ci accorgiamo di essere diventati adulti, di vivere in quell’età che da piccoli immaginavamo la strada su cui viaggia la libertà, e con essa la felicità. La strada delle nostre aspirazioni e dei nostri sogni. La realtà, però, è ben diversa. È costruzione e sudore, è sofferenza e perdono, è lavoro e dolore. Come dopo un’estate calda arriva l’autunno, così il sole lascia il cielo alle piogge che tutto lavano e spazzano via… In un attimo può crollare ciò che credevamo più saldo. Muoiono le persone e portano con sé pezzi del nostro cuore; altre, invece, vanno via e chiudono una porta dell’anima senza lasciare la chiave per riaprirla. Il momento delle somme arriva, forse, solo alla fine del nostro viaggio. La vecchiaia diventa il periodo dei ricordi e della solitudine, probabilmente l’età nella quale ogni cosa perviene ad un proprio equilibrio. Forse però… forse saremo ancora alla rovescia, a testa sotto, come dei bimbi che giocano nelle braccia del padre.

Posso solo sperare che quel giorno, quando arriverà, non mi trovi solo. Immagino al mio fianco quella giovane ragazza che, guardandomi come la prima volta negli occhi, mi faccia riscoprire ancora la bellezza di uno sguardo, di un sorriso, di una carezza, di un abbraccio. Che possa giungere, come una preghiera, alla mèta con me per cogliere insieme il frutto di quell'albero. Perché con lo stesso sguardo di un bimbo appena nato, appannato dalle lacrime, sperare che il paradiso sia simile a quello sguardo innamorato nel quale ci ritroveremo insieme a ballare in punta di piedi.