mercoledì 19 settembre 2012

UNA LACRIMA

Ecco il mio secondo blog a distanza di pochi giorni. Forse l'argomento risulterà banale, però, come nel precedente, cerco di non tradire i miei stati d'animo. E' triste, lo so, come una fredda giornata di dicembre, ma la vita è fatta così, di gioie e dolori...

Dicono che una lacrima è soltanto una secrezione acquosa emessa dal nostro occhio quando quest’ultimo si trova in uno stato di stress. Dicono che serve a pulire la cornea, a lubrificarla, a nutrirla e a difenderla dagli agenti esterni. Dicono che una lacrima è un atto naturale, un atto involontario. Ma questo è solo ciò che la scienza medica crede. C’era un tempo in cui le lacrime erano considerate sacre, quanto di più vero c’era in un essere umano. Si racconta che Achille, alla notizia della morte di Patroclo, urlando di disperazione, pianse sulla riva del mare. Si tramanda che Afrodite, la dea dell’amore, ferita da Diomede per errore a una gamba, córresse dal padre piangendo a dirotto. Si riporta, ancora, che gli antichi atleti e i loro re, accorsi per le Olimpiadi, piangessero mostrando il loro animo più nobile. Eroi, dei, re e atleti non si vergognavano di piangere in presenza di altri.

Anche per gli antichi romani era così. Una leggenda dell'epoca narra la storia di una giovane donna, Quinzia: innamorata del poeta Catullo, a sua volta invaghito follemente di Lesbia, fu abbandonata sulle rive del lago di Garda, quando l’antico cantore partì per Roma. Non sempre la lontananza segna effettivamente una distanza. Lo spazio è come una lente di ingrandimento ed il tempo è come un metro di misura per l’amante; più le sensazioni e le emozioni sono state forti e più i sentimenti e le passioni si intensificano. Per questo il ricordo dell’amore lontano si impresse a fuoco nel cuore di Quinzia, tanto da farla tornare spesso sulle rive del lago, dove scrutava l’acqua alla ricercava dell’ombra riflessa dell’amato, in modo dar non sentirsi più sola. Un giorno giunse la voce tremenda della morte del poeta. La giovane corse allora disperata, ancora una volta, sulla riva del lago e pianse tutte le sue lacrime. Cadendo in acqua, goccia dopo goccia, queste formarono un bellissimo mosaico che riproduceva le fattezze del poeta. Non riuscendo più a sopportare il dolore, la donna morì. Si riferisce ancora che per secoli si è tramandata l'usanza tra i giovani innamorati di prendere il largo con una barca, nelle notti di luna piena, alla ricerca di quell’antico mosaico posato sul fondale.


Una lacrima non è solamente un liquido acquoso, ma è anche il contenitore di una storia, di un’esperienza vissuta. Una lacrima, una volta staccatasi dall’occhio, vive di vita propria, almeno nel tragitto che dalla guancia la conduce alla morte. Hanno un'esistenza breve, di qualche secondo a volte, se la mano non le cancella prima dal viso. Sono stelle cadenti, fasci di luce tanto intensa quanto effimera, galassie remote. Una lacrima parla, però, a chi è capace di ascoltarla: gli parla d’amore perduto, di tristezza sofferta, di speranza infranta, oppure gli parla di attimi di felicità impressi per sempre nell’anima. È il canale privilegiato dei sogni. È il canale troppe volte inascoltato delle nostre emozioni. Una lacrime è metafora di noi e ci rappresenta per quello che siamo in quell’attimo in cui piangiamo.

Nella mia adolescenza mi è stato insegnato a non piangere, a essere forte perché una lacrima è segno di fragilità, è un messaggio di inadeguatezza. Una giovane donna, invece, poco tempo fa mi ha fatto una domanda, col suo viso candido, con lo sguardo profondo di chi ama oltre l’apparenza, con le sue labbra rosa e carnose: “Tu non piangi mai?”. Come una freccia affilata, ha trafitto la mia anima. Perché non piango mai? È calato il silenzio nei miei pensieri. Non mi ero mai posto questa domanda. La risposta è arrivata alcune settimane dopo, di sera, mentre tornavo a casa. Mi sono reso conto di non essere in grado di piangere di felicità, almeno esteriormente. Ho compreso, invece, cosa significa piangere per amore: si piange per paura di perdere l’altra persona e quindi parte della propria anima, perché è così che accade quando l’amata si allontana, forse momentaneamente, forse per sempre, e abbandona la strada che stavate percorrendo insieme. Quella mano nella mano che lascia la presa. Quello sguardo di adorazione, trasformatosi in un’espressione tesa, si volta altrove. Ti ritrovi perso, senza più una mèta. Perché nel profondo di ogni uomo o donna c’è un inestinguibile bisogno d’amore; perché solo nel donarci all’altro, nell’amare, realizziamo noi stessi in quanto esseri affettivi. È brutto trovarsi soli! A volte credo che Dio abbia creato il mondo nel bisogno di non sentirsi più solo. Spero che, così come ho imparato a piangere di tristezza per un amore che si è allontanato, un giorno imparerò a piangere di felicità per un amore che è tornato.

2 commenti:

  1. Piangere di felicità e senza dubbio la cosa più bella!
    Mi viene in mente il film "matrimonio all'italiana" la scena finale si conclude con lei che piange e che dice:"comm'è bell chiagner!"

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  2. Dolce e nostalgico questo post che spazia dalla storia, al mito, a un flettersi su se stessi, sulle proprie esperienze che insegnano, così da riflettersi davvero, attraverso le parole e le emozioni di un cammino che il lettore si augura arrivi a quelle lacrime di gioia tanto desiderate. -Flavia

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